Giorgio Chinaglia, l’unico grido di battaglia.

La prima volta che mio padre mi portò allo stadio, a 7 anni, superato lo stupore per quell’immenso prato verde e per il gran numero di persone che non avevo mai visto tutte insieme, la cosa che più mi colpì e mi rimase in mente fu una frase che mi disse mio padre all’ingresso delle squadre in campo: “quelli celesti so’ li nostri”.

Fu per me una specie di imprinting: non mi disse quello è Pulici, quello è Petrelli, quello è Martini… mi indicò la maglia, il suo colore aggiungendo quel pronome possessivo “nostri”, apparentemente irrilevante, ma che col tempo ho capito: giustificava da una parte il senso di possesso quasi morboso e, dall’altra, il senso di comunità che viviamo noi tifosi.

Da allora ho amato, direi quasi indistintamente, tutti i calciatori che hanno vestito la “nostra” maglia: campioni, pippe, eleganti, rozzi, veloci, lenti… ma sempre un gradino al di sotto della maglia, bene supremo che nessun giocatore poteva eguagliare.

Come ogni buona regola c’è sempre l’eccezione che la conferma: l’eccezione si chiama Giorgio Chinaglia, l’unico grido di battaglia. Di lui ho amato TUTTO, a lui ho perdonato TUTTO. Lo so, non mi straziate il cuore ricordandomi tutte le cazzate che ha fatto Giorgio, dall’abbandono della Lazio per andare ai Cosmos, all’inadeguatezza come presidente, fino alla storia vergognosa che non voglio nemmeno nominare.

Ma Giorgio e i tifosi della Lazio sono due cose inscindibili: una meravigliosa alchimia che si è creata negli anni settanta. Mi piace pensare che Giorgio ha rappresentato per noi Laziali ciò che William Wallace ha rappresentato per gli scozzesi.

Oggi sono 10 anni che Giorgio è morto, solo, lontano dalla sua gente che fra mille rimproveri non ha mai smesso di amarlo.

Personalmente ho un ricordo che serbo nel cuore. Serramazzoni, ritiro 1987. Giorgio, non mi ricordo più per quale motivo, passa velocemente in ritiro. Due anni prima aveva lasciato la Lazio da presidente sconfitto. Ora la Lazio era nelle mani più salde dei fratelli Calleri. Ebbi l’onore di stare a cena con lui e pochissimi tifosi della Lazio capitanati dalla mitica Rosaria. Io 20 anni, pendevo letteralmente dalle labbra di quell’uomo. A fine cena gli chiesi di farci una foto: è l’unica foto che mi sono fatto con un personaggio della Lazio. A tutti ho voluto bene… lui l’ho amato.

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